Ogni uomo deve essere considerato come membro essenziale dell'umanità

 

I grandi pensatori della storia della Pedagogia, eterni educatori, hanno lasciato frasi, pensieri indelebili che sempre, in ogni tempo e settore dell'educazione, stimoleranno ricche riflessioni. 
Spesso mi risuona nella mente e nel cuore quella che ritengo la frase chiave di tutta l'opera di Froebel: “Ogni uomo, fin da bambino, deve essere riconosciuto come membro essenziale all'umanità”1. È la grande convinzione ermeneutica che accompagna qualsiasi educatore nel guardare all'educando: a fianco dell'asimmetria sulla quale agisce l'educazione, c'è un'importante simmetria, l'essere uomo, l'essere persona che accomuna educatore ed educando, li porta in campo valoriale sullo stesso piano. Non si tratta di uguaglianza di sapere, di esperienza o di competenza professionale, ma di uguaglianza di valore e di dignità, nella quale ciascun essere umano rispetta pienamente l'altro2. Froebel sottolinea nella sua affermazione un aspetto importante: questo valore persona, nell'educando, va tenuto ben presente fin da bambino, quasi a dire fin dal primo giorno di vita. Parafrasa inoltre il concetto oggi chiamato “persona” con termini molto chiari ed espliciti: membro essenziale all'umanità.
Mi occupo di educazione precoce, sviluppo e gestione del bambino nei primissimi mesi di vita, e di educazione speciale. Seppur riconosco che a livello teorico e valoriale questo genere di riflessioni ed evidenziature sono ormai punti fissi, pilastri dell'agire educativo, mi interrogo molte volte sulla loro applicazione, sul loro riscontro nel campo pratico, nella vita di ogni giorno. Per questo mi propongo di porre all'attenzione del lettore alcune scene, flash della vita quotidiana ed atteggiamenti che involontariamente vengono forse dati per scontati, quasi fossero non significativi. Anch'io spesso li ho facilmente attuati, in passato non ho riflettuto su di essi: ora mi accorgo che forse alcune semplici riflessioni possono aiutare a migliorare l'agire educativo quotidiano di genitori, famigliari e professionisti.

 Riflessioni dopo un aneddoto in stazione

Una sera, mentre attendevo il treno in stazione, trovandomi seduto vicino ad un bimbo di circa 2 anni ed essendo un chiacchierone, iniziai a fare conoscenza. Come noto a quell'età spesso i bambini non parlano molto bene, si mangiano alcuni pezzi di parole, non scandiscono bene i termini, poiché stanno imparando ad esprimersi (lo sanno fare da pochi mesi); allo stesso tempo si nota in loro una grande voglia di comunicare, di discorrere con i termini che di giorno in giorno imparano. Il bambino era in questa situazione. Mi disse il suo nome, poi l'età, poi mi parlò del libretto che aveva  appena comprato, ... La madre, come interprete di una lingua straniera, mi ripeteva tutto ciò che il figlio pronunciava, senza farsi scappare mezza parola (nome, età, ...). Ad un certo momento mi son rivolto alla madre in maniera forse un po' brusca: “Guardi che capisco ciò che dice”. Respiro di sollievo: la madre, dopo aver spiegato che spesso l'altra gente non comprende, iniziò a tacere e lasciò che il discorrere scorresse più fluido.

Considerare un piccolo come membro essenziale all'umanità, come persona, significa anche mettersi nei suoi panni, acquisire le sue vesti. Quale adulto, o ragazzo, o bambino un po' più grande, non si irrita nell'avere alle spalle una persona che ripete a pappagallo le proprie parole? Il lettore provi a pensare se, essendo lui nella situazione del bambino, preferirebbe avere a fianco la madre che ripete tutto o esprimersi liberamente ed essere bloccato dall'interlocutore quando non capisce qualcosa: “Scusa, non ho capito l'ultima parola, me la puoi ripetere?”. I bambini non si offendono se qualcuno  chiede loro di ripetere la parola o la frase non compresa: anzi fanno di tutto per riuscire a farla capire, usando magari anche altre parole con lo stesso significato. Lasciare che il piccolo si arrangi nel discorso, oltre a rispettare il valore del piccolo come persona, è una delle modalità che aiuta il bambino ad imparare a fare da sé, avvia all'educazione alla ricerca3 (al fine di abilitare il soggetto ad orientarsi consapevolmente nei vari ambiti di vita e di attività4), componente importante dell'educazione all'autonomia: si tratta di vivere in rapporto con gli altri, avere persone di riferimento su cui contare, ma poi sapersi distaccare come singolo individuo che agisce secondo le proprie scelte, sfruttando le proprie conoscenze ed abilità5
Al giorno d'oggi molti bambini sono protagonisti di scene come quella avvenuta in stazione: bimbi di 2-3 anni, che stanno imparando a parlare, e bambini con handicap, affetti da qualche deficit per cui non hanno ancora scioltezza nel discorso. L'invito a genitori, famigliari ed educatori è lasciare che possano imparare a “fare da se”, cercando di usare appieno le abilità raggiunte.

Alcune abitudini affondano le radici nei primi mesi

Eppure l'atteggiamento di interprete nasce molto presto. Non è raro osservare un altro tipico aneddoto: una persona incontra una mamma con in braccio il figlioletto di pochi mesi e si rivolge al piccolo chiedendo come sta, o cosa sta facendo, o dove va, ...; i gorgheggi del piccolo, infarciti di sorrisi, sono presto sovrastati dalla voce della mamma che dà la risposta al posto del bambino. Si obbietterà alla mia riflessione che il piccolo non è ancora in grado di dare una risposta capibile all'interlocutore: eppure egli lo sa, vede che ha davanti un bimbo di pochi mesi che non sa parlare; se si è rivolto proprio a lui, e non alla madre, significa che non attende una risposta comprensibile, parlata, ma vuole interagire ed interloquire con il bambino, con i suoi gorgheggi ed espressioni. Una buona abitudine potrebbe aiutare le madri a riconoscere il loro infante  come membro essenziale all'umanità: rispondete a chi si rivolge a voi; lasciate che il vostro bambino risponda a chi lo interpella, come è capace ed orgoglioso di fare. Sono stato più volte stupito dall'espressività e voglia di comunicare dei più piccoli, come R. che all'età di due mesi e mezzo già ascoltava attentamente la mia voce e, puntuale quando smettevo di parlare, cominciava la risposta con gorgheggi e sorrisi espressivi. Per tutto l'entourage (famiglia ed amici) è sempre sorprendente scoprire quanto è bello parlare con il bambino, renderlo partecipe di ciò che avviene, intermediario nei discorsi, via via più articolati, fin dai suoi primi giorni di vita6.
Trattare l'infante come persona e individuo significa inoltre tener ben presente che è inopportuno attuare certi comportamenti “equivoci”, tanto usati dalla gente che sminuisce i bambini usando in loro presenza frasi, atteggiamenti del tipo “tanto non capisce ... è ancora piccolo”...7 Il lettore cerchi di immaginare una persona che gli parla insieme, gli fa una domanda, ed un suo caro vicino che, con il sorriso stampato sulle labbra, afferma: “E' piccolo, guarda che non capisce quello che dici!”. È altrettanto inopportuno trattare in questo modo persone con ritardo mentale o diversi tipi di handicap.

 Altri dettagli

Ritornando a parlare del bimbo un po' più grandicello, che a due-tre anni sta iniziando a parlare o che è un po' più avanti con l'età ma presenta qualche handicap, mi vengono in mente altri aneddoti che ora elencherò.

-       Squilla il telefono: il papà o la mamma rimangono per un po' di tempo a parlare con la cornetta in mano; quando poi il nonno, la nonna, l'amico vuole salutare il bimbo, invece di passargli la cornetta, il genitore attiva il viva-voce.

-       Il bambino viene lasciato esprimersi da solo, ma l'interlocutore fa finta di ascoltarlo, non chiede spiegazione su ciò che non capisce, non risponde al bambino o non dà retta e non tiene in considerazione i suoi discorsi.

-       Si sta parlando tra adulti, il bimbo è lì che ascolta ed al suo turno vorrebbe dire la sua, ma non gli si dà retta, non lo si lascia intervenire, perché tanto “è piccolo ... cosa ne può sapere”.

È utile ricordare sempre in tali situazioni l'esortazione di Froebel.

Una parola per gli specialisti

In conclusione alla presente riflessione mi preme ricordare un altro aspetto della vita quotidiana. Quando il piccolo viene portato dallo specialista (medico, pedagogista, psicologo,  ...), è abitudine che, all'ingresso nello studio, il professionista dia la mano ai genitori ed inizi subito a chiedere loro quale è il problema, ... Poi forse si rivolge al bambino.
Ritengo che alcune piccole accortezze, che forse potranno essere ritenute dal lettore sottigliezze o bazzecole, permettano di valorizzare la persona del bambino, per la quale si deve lavorare:

-        quando entra ed esce, salutarlo dandogli la mano come ai suoi genitori;
-       prima di iniziare a parlare con papà o mamma, rivolgersi a lui, chiedendogli il suo nome, presentandosi, dialogando con lui per qualche minuto;
-       interagire non solo con l'adulto, ricordare che la persona in questione è il bambino.

Commiato

Preme sottolineare che il presente articolo non vuole in alcun modo essere una critica, un giudizio, per genitori o educatori. Si tratta piuttosto di una riflessione che ho voluto condividere con tutti coloro che sono impegnati a prendersi cura del bene più prezioso dell'umanità: la vita dei bambini8.

                                                                                  Matteo Faberi

 

1  F.Froebel, L'educazione dell'uomo e altri scritti, La Nuova Italia Editrice, Firenze pag.16
A.Benjamin, La pratique de la relation d'aide et de la communication, Les Editions ESF, Paris 1978 p. 101, et L.Pati, Pedagogia della comunicazione educativa, ed.La Scuola, Brescia 1984 p. 124
3 L.Passuello, “Educazione e progettualità. Alcune linee operative”, in G.Cian, D.Orlando (a cura di), Studium educationis, CEDAM, Padova 2002, p. 188
4 ibidem
5  M.Faberi, Consigli di zio Mario. Consigli utili per la famiglia del neonato, ARC I nostri figli e CSV, Verona 2007, p. 59
6  M.Faberi, già cit.to, p.53
7 ibidem
8  A.Lascioli, “Introduzione”, in M.Faberi, già c.to, p.8